
Paul Klee è stato uno degli artisti più influenti del ventesimo secolo. A giudicare dal fatto che continua a essere molto popolare come scelta per le copertine dei libri in specifici settori del mondo editoriale, è anche uno degli artisti più influenti del ventunesimo secolo.
In effetti, come mai chi scrive o pubblica nel campo della filosofia novecentesca – della cosiddetta «teoria» con la T maiuscola – e di discipline umanistiche affini (psicologia, sociologia, teologia, terapia) ricorre con tanta frequenza a Paul Klee – spesso addirittura allo stesso dipinto, ancora e ancora – per decorare le copertine dei libri? Raccogliendo centinaia di volumi provenienti dalla biblioteca del Zentrum Paul Klee e non solo, gran parte dei quali pubblicati negli ultimi vent’anni, Cover Star Klee tenta di fornire qualche risposta a questo interrogativo. Può darsi che i teorici di questa fase culturale siano attratti da Klee a causa del suo amore per tutto ciò che è minuto e microscopico; può darsi che lo considerino il poeta esemplare della frammentazione, un cronista del disordine e del disorientamento. Forse la modalità antieroica della sua astrazione si attaglia esemplarmente alle ansie montanti del nostro confuso qui e ora; forse niente racchiude l’enigma delle relazioni tedesco-ebraiche con la stessa potenza dello sbigottito Angelus Novus di Klee.
Abbinando queste copertine di libri ai disegni e dipinti originali, Cover Star Klee offre uno sguardo scanzonato su quella che oggi è nota come «cultura dei meme». Lungi dall’essere un atto d’accusa contro la povertà visiva della creatività editoriale in questi campi accademici, Cover Star Klee onora la potenza di una manciata di immagini artistiche selezionate, nonché il fascino che hanno esercitato e tuttora esercitano sull’immaginario intellettuale del ventesimo (e ventunesimo) secolo.
Questa mostra è stata ideata da Dieter Roelstraete, curatore del Neubauer Collegium for Culture and Society dell'Università di Chicago. Di formazione filosofica, il lavoro curatoriale di Roelstraete si concentra sul rapporto tra arte e conoscenza. Nel 2019 ha pubblicato il libro Kleine Welt (disponibile nella sala di lettura), che esamina il significato delle copertine dei libri basate sulle opere di Paul Klee.
Il titolo, l'anno e il numero dell'opera di Klee sono annotati sui segnalibri della copertina.
Angelus Novus: Paul Klee e Walter Benjamin
Angelus Novus di Paul Klee è assurto a simbolo per eccellenza dei trionfi e delle tragedie della cultura tedesco-ebraica del ventesimo secolo. Questo piccolo disegno con trasferimento a olio, ormai celeberrimo, fu realizzato da Klee nel 1920 – nel periodo intercorso tra il congedo dal servizio militare e l’incarico al Bauhaus – ed è oggi di proprietà del Museo d’Israele di Gerusalemme. Deve la sua notorietà soprattutto al legame con l’opera del filosofo ebreo-tedesco Walter Benjamin, che nella tarda primavera del 1921 lo acquistò dal mercante d’arte Hans Goltz di Monaco per la ragguardevole cifra di 1.000 marchi. (Già nel 1920 la moglie di Benjamin, Dora, gli aveva regalato per il compleanno un’opera di Klee, l’acquerello Vorführung des Wunders, cioè Presentazione del miracolo, del 1916, ora nella collezione del Museum of Modern Art di New York.)
Quello stesso anno Benjamin fondò una rivista letteraria chiamata «Angelus Novus» nel tentativo di creare un collegamento tra l’avanguardia artistica dell’epoca e la leggenda talmudica degli angeli «creati […] nuovi ogni istante, in schiere innumerevoli – perché, dopo aver cantato il loro inno al cospetto del Signore, cessino e svaniscano nel nulla». (Klee non era ebreo e non incontrò mai Benjamin; né sappiamo cosa pensasse – posto che la conoscesse – dell’interpretazione del critico, teologicamente connotata, di quella sua opera giovanile).
La strana creatura alata di Klee era di certo tra i beni più preziosi posseduti da Benjamin e lo accompagnò durante tutto il corso della sua vita nomade e tragicamente breve. Poco prima di fuggire da Parigi nell’estate del 1940 per dirigersi verso Port Bou, una cittadina sui Pirenei dove avrebbe messo fine alla propria vita, Benjamin incluse il serafino di Klee in un fascio di documenti che affidò a Georges Bataille, bibliotecario della sua amata Bibliothèque Nationale. Dopo la guerra, i beni di Benjamin finirono a New York, nelle mani del suo collega della Scuola di Francoforte Theodor W. Adorno, il quale li trasferì poi a Gershom Scholem, amico di Benjamin dei tempi di Weimar, nonché insigne storico della mistica ebraica in Israele. Dopo la morte di Scholem, avvenuta nel 1982, la vedova di quest’ultimo donò il dipinto al Museo d’Israele. Ne conseguì la prima esposizione pubblica, in oltre mezzo secolo, di un’opera fino ad allora nota solo grazie all’enigmatica menzione contenuta nel nono paragrafo delle Tesi di filosofia della storia (1940), l’oscuro testamento intellettuale di Benjamin: «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato». Che l’angelo custode di Benjamin fosse una specie di ritratto di Klee?
Kleinwelt (Piccolo mondo): Paul Klee e l’ambiente editoriale
Kleinwelt è il titolo di un’acquaforte realizzata da Paul Klee nel 1914 ma pubblicata solo nel 1918, quando fu inserita in un portfolio di stampe che uscì sulla rivista Die Schaffenden (I creatori) dell’editore Kiepenheuer. I quattro anni intercorsi fra la realizzazione e la stampa di quest’opera minore sono, com’è ovvio, quelli della Prima guerra mondiale – due dei quali Klee li passò in uniforme e in servizio militare attivo, benché per fortuna lontano dal fronte (diversamente dai suoi cari amici e colleghi August Macke e Franz Marc, morti nei primi anni di un conflitto militare che trasformò completamente il mondo per come lo avevano conosciuto). Il microcosmo che brulica di movimenti striscianti al cuore di Kleinwelt fa presagire minacciosamente il caos apocalittico e il cupo disorientamento della guerra di trincea, anche se, riprodotto sulla copertina di un libro intitolato Kleine Welt, edito dal curatore della presente mostra, allude soprattutto al «piccolo mondo» dell’editoria accademica, che così spesso ricorre a Paul Klee per visualizzare concetti difficili da rappresentare quali «differenza», «ragione», «rivelazione», «rischio» e altre parole chiave provenienti dal multiforme piccolo mondo della «teoria».
Paul Klee, insomma, sembra essere il pittore dei filosofi per eccellenza che, copertina dopo copertina, regala al mondo verboso del pensiero astratto una ricca vita visuale. Come sottolinea la storica dell’arte Annie Bourneuf in uno studio significativamente intitolato Paul Klee. The Visible and the Legible, «la ricerca di analogie fra scrittura e immagini, la sollecitazione di un modo di osservare simile alla lettura» sono essenziali nell’arte di Klee. (Si consideri la frase che chiude il paragrafo 3 della Confessione creatrice dell’artista, edita per la prima volta nel 1920 e spesso ristampata: «Al principio v’è l’azione, certo ma al di sopra sta l’idea. E dal momento che l’infinito non ha inizio preciso, ma anzi come il cerchio ne è privo, l’idea può essere considerata primaria. In principio era la parola, traduce Lutero»).
Kleine Welt è anche il titolo di una mostra presentata inizialmente al Neubauer Collegium for Culture and Society dell’Università di Chicago nel 2019, da cui è scaturita l’idea di Cover Star Klee; quella mostra consisteva di appena sessanta libri con copertine ispirate a Paul Klee. Cover Star Klee avrebbe potuto comprenderne tranquillamente seicento, ma ciò sarebbe andato contro lo spirito dell’opera di Klee, così straordinariamente dedita a onorare il piccolo.
Betroffener Ort (Luogo colpito): Paul Klee e il Bauhaus
Il filosofo e cognitivista americano Daniel C. Dennett chiaramente amava Paul Klee: quattro dei suoi libri – e tra questi i più noti e letti – hanno in copertina suoi dipinti. È lecito supporre che si sia trattato di scelte tanto autoriali quanto redazionali: nel più recente di questi volumi, Intuition Pumps and Other Tools for Thinking, Dennett menziona Klee come uno dei presunti autori della frase «rendere strano ciò che è familiare», uno dei «compiti che si sono assegnati» sia gli artisti sia i filosofi: «Tra coloro ai quali viene attribuito questo aforisma vi sono il filosofo Ludwig Wittgenstein, l’artista Paul Klee e il critico Viktor Borisovič Šklovskij». (Riflettendoci, perché non ci sono più libri su Wittgenstein con copertine di Paul Klee? Anche loro sembrano fatti l’uno per l’altro.)
Betroffener Ort fu realizzato nel 1922, quando Klee insegnava al Bauhaus, dove ritrovò Vasilij Kandinskij, l’«inventore» russo dell’arte astratta. Il «luogo colpito» che dà il titolo al dipinto potrebbe riferirsi al caos di svolazzi simili a recinzioni al centro dell’immagine – una piazza di villaggio o un giardino abbandonato? Uno squarcio d’interiorità? – contro cui va a scagliarsi una freccia audace e minacciosa che incombe all’orizzonte come un fulmine o una spada di Damocle. Quanto a Klee, intese questo impatto in termini geologici e descrisse il gioco di orizzontali e verticali come una linea di faglia: «il bersaglio della freccia è il centro della terra» – la roccaforte delle certezze, forse, delle nozioni preconcette che caratterizzano la vita della mente per come la conosciamo. Betroffener Ort è di sicuro una delle opere più «aggressive» di Klee; la carica contraddittoria della sua energia angolare ricorda la durezza del pensiero che mira a «rendere strano ciò che è familiare», così centrale nella missione dell’arte moderna per come è stata concepita in luoghi come il Bauhaus. È dunque Dessau, forse, il vero «luogo colpito».
Hauptweg und Nebenwege (Strada principale e strade secondarie): Klee e la teoria critica
L’associazione intuitiva dell’arte di Paul Klee con la teoria critica e la filosofia della cosiddetta Scuola di Francoforte va ben oltre la saga romantica dell’Angelus Novus di Walter Benjamin, come testimoniano le numerose narrazioni della Scuola che per vendere ricorrono alle immagini classiche di Klee. Il celeberrimo Hauptweg und Nebenwege del 1929, per esempio, sembra fatto su misura per illustrare le idee di Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse e altri, proprio come le opere più crude e primitiviste degli anni trenta si abbinano spesso ottimamente alla filosofia, altrettanto «cruda» e volutamente «primitivista», dello storico antagonista dei francofortesi, Martin Heidegger. Quale modo migliore di «illustrare» la nozione di critica in quanto teoria, o di teoria in quanto critica, che attraverso un’immagine raffigurante una miriade di «strade secondarie» (cfr. la tattica adorniana della distrazione) che si ammassano intorno a un’unica «strada principale» a una sola corsia (cfr. il mito heideggeriano di un’origine conoscibile)? Hauptweg und Nebenwege è forse l’opera con cui Klee si avvicina di più a catturare in pittura l’essenza capricciosa e scintillante della dialettica, dell’«immaginazione dialettica» al lavoro, per riprendere il titolo della monumentale storia della Scuola di Francoforte di Martin Jay. (Nella Teoria estetica, Adorno osservò memorabilmente che l’autentica grandezza di Klee risiede nel suo talento per la miniaturizzazione).
La storia della Scuola di Francoforte di David Held, di poco successiva, si conclude con un lungo sguardo all’Odissea di Omero, pietra di paragone nella teorizzazione della «ragione strumentale» di Adorno e Horkheimer, come si legge nella loro fondamentale Dialettica dell’Illuminismo. Scrive Held: «La patria è naturalmente il telos del viaggio omerico. Il ritorno di Odisseo, che anticipa il possibile ritorno a casa degli esseri umani occidentali, è il ritorno a una vita «strappata al mito». La casa, tuttavia, non ci consente di dimenticare l’orrore del viaggio. Né dimentichiamo che quella casa è sua. Il ritorno di Odisseo potrebbe promettere la riconciliazione tra uomini e natura, e tra i singoli esseri umani, ma rimane pur sempre una promessa – attende cioè di essere realizzata». Balugina all’orizzonte, simile al Nilo nella calura di mezzogiorno, come Paul Klee scelse di dipingerlo qui, e molte strade possono condurvi: meno sono battute, meglio è.
Alter Klang (Antica armonia): Paul Klee e la musica
Cover Star Klee si concentra sull’uso delle opere di Paul Klee nel design delle copertine di libri, in particolare di ambito accademico e/o teorico. Una mostra come questa, però, si potrebbe benissimo concepire anche come incentrata sulle copertine di dischi ispirate al pittore, perché la sua arte sembra essere una fonte di immagini altrettanto popolare per rappresentare visivamente il suono. Né stupisce che i suoi disegni e dipinti abbelliscano un buon numero di registrazioni di musica classica del primo Novecento, in particolare di jazz «astratto». La nozione ampiamente diffusa della «musicalità» di Klee – l’idea cioè che il suo mondo sia un universo sonoro trasposto in linee e colori anziché in note e tonalità – è in parte radicata nella biografia dell’artista: il padre di Klee era un insegnante di musica tedesco, la madre una cantante svizzera, e in un primo momento lui stesso parve destinato a diventare musicista, avendo preso in mano il violino e l’archetto molto prima di pennello e colori.
Già negli anni dieci Klee fece un’osservazione rimasta celebre: «Un giorno dovrò poter improvvisare liberamente sulla tastiera cromatica formata dalle scodelline dei colori all’acquarello». Ciò detto – e alla luce di questa affermazione il titolo dell’iconico Alter Klang (1925) appare programmatico – il suo gusto in fatto di musica rimase del tutto convenzionale, addirittura conservatore: predilesse Bach e Mozart in contrapposizione al modernismo ruvido di compositori come Hauer, Hindemith, Schönberg o Stefan Wolpe (che a metà degli anni venti fu studente al Bauhaus proprio durante l’influente periodo d’insegnamento di Klee), compositori a cui forse è più probabile dedicarsi mentre guardiamo – e ascoltiamo – dipinti come questo energico esperimento di astrazione geometrica. (Alter Klang appare doverosamente sulla copertina di una registrazione di musica da camera con clarinetto di Paul Hindemith e su un album jazz di Takashi Kako dal titolo Klee e ispirato al third stream.)
Usando Alter Klang, il volume Judaism Musical and Unmusical di Michael P. Steinberg tratteggia efficacemente l’ipotetica convergenza fra la presunta «ebraicità» e la musicalità dell’opera di Klee; il titolo del libro di Steinberg riprende in parte l’affermazione di Max Weber, «ich bin religiös unmusikalisch»: dal punto di vista religioso non sono musicale. Il reticolo di Klee degli anni venti, dalla forma sottilmente mutevole, evoca invece un’immagine della musica come religione secolare del mondo moderno.
Constructiv-impressiv (Costruttivo-impressivo): Paul Klee e Hermann Hesse (passando per Jacques Derrida)
È interessante notare come Constructiv-impressiv sia l’unico dipinto menzionato per nome nell’epocale (e controverso) La verità in pittura di Jacques Derrida, un libro apparentemente «sull’»arte, ma in realtà molto più «intorno all’»arte; un libro sulle cornici, piuttosto che sulle immagini che quelle cornici racchiudono (La vérité en peinture apparve in francese nel 1979, al culmine del postmodernismo); un libro sulle istituzioni che producono l’esperienza dell’arte per come la conosciamo, dall’atelier al museo fino ai chiodi a cui, presumibilmente, il quadro verrà appeso. Scrive Derrida (rispetto al quale ci si potrebbe legittimamente chiedere perché non si vedano più opere di Klee sulle copertine dei suoi libri): «Nel caso in cui i chiodi vengano dipinti (come fa Klee in Constructiv-impressiv, 1927) come figura su uno sfondo, qual è il loro posto? A quale sistema appartengono?». Sono domande grandi e profonde – ma sono davvero chiodi quelli che vediamo nel dipinto di Klee per come è riprodotto ad esempio sulla copertina di un’edizione tascabile inglese dei primi anni settanta del Giuoco delle perle di vetro di Hermann Hesse, l’ultimo romanzo dello scrittore premio Nobel (iniziato nel 1931 ma completato in esilio e pubblicato in Svizzera solo nel 1943)?
Hesse e Klee nacquero a neanche due anni di distanza l’uno dall’altro (il primo nel 1877, il secondo nel 1879), rispettivamente nella Germania sudoccidentale e sull’Altopiano svizzero: Hesse un tedesco che divenne uno scrittore svizzero, Klee uno svizzero che divenne un artista tedesco. Klee scriveva poesie (pubblicate postume) mentre Hesse dipingeva paesaggi ad acquerello. Eppure, per quanto improbabile possa sembrare, i due non si incontrarono mai: il punto in cui le loro strade arrivarono quasi a incrociarsi è rappresentato dalla novella di Hesse Il pellegrinaggio in Oriente del 1932, dove Klee compare in veste di personaggio accanto a Platone, Don Chisciotte, Mozart, Baudelaire e un certo Klingsor, il pittore espressionista al centro del romanzo di Hesse del 1920, L’ultima estate di Klingsor.
In inglese, la traduzione del Giuoco delle perle di vetro è apparsa anche con il titolo latino di Magister Ludi, il «Maestro del Giuoco». Hesse osservò in proposito: «Queste regole, il linguaggio figurato e la grammatica del Giuoco sono una specie di linguaggio esoterico, sommamente evoluto, che comprende parecchie scienze e arti, massime la matematica e la musica (o musicologia), ed è capace di esprimere e mettere in rapporto tra loro il contenuto e i risultati di quasi tutte le scienze. Il Giuoco delle perle è dunque un modo di giocare con tutti i valori e con il contenuto della nostra civiltà. Esso giuoca con questi come, mettiamo, nei periodi aurei delle arti un pittore può aver giocato con i colori della sua tavolozza».
Tod und Feuer (Morte e fuoco): Paul Klee e Martin Heidegger
Tod und Feuer è uno degli ultimi dipinti di Paul Klee, terminato poco prima della morte sopravvenuta il 29 giugno 1940. Fa parte di un gruppo più ampio di opere realizzate dall’artista dopo l’insorgere della sclerodermia a metà degli anni trenta, una patologia che ne compromise la motricità fine; molte delle creazioni risalenti agli ultimi anni della sua vita sono infatti caratterizzate da una crudezza grafica quasi geroglifica. (Oltre all’arte rupestre preistorica, anche l’Egitto dei faraoni costituiva da tempo un suo interesse iconografico). La maschera mortuaria al centro di questo aspro dipinto su iuta grezza non trattata potrebbe essere un autoritratto: l’artista si prepara alla fine, annunciata dalla danza dei lineamenti del teschio ghignante che ricordano delle lettere (la T, la O e una D rovesciata a comporre la parola tedesca Tod, «morte»). Quando il dipinto fu completato, nella neutrale Svizzera, la morte circondava Klee da ogni lato; le città tedesche che a lungo aveva chiamato casa sua sarebbero state presto ridotte a un cumulo di macerie.
Tra i grandi, macabri favoriti del Zentrum Paul Klee, con ogni probabilità il quadro fu incluso nella retrospettiva su Klee che Martin Heidegger, il filosofo tedesco ormai screditato, visitò a Berna nel 1956, in un periodo buio per l’idolo caduto di Todtnauberg. (Prima che Heidegger incontrasse il poeta ebreo-romeno Paul Celan nel suo rifugio di montagna, alla fine degli anni Sessanta, quest’ultimo era già divenuto famoso per aver definito la morte «un maestro tedesco»). Il contatto con l’opera di Klee nel dopoguerra indusse Heidegger, com’è noto, a considerare brevemente la rielaborazione di alcune parti del suo fondamentale saggio L’origine dell’opera d’arte (1936). Il progetto non si concretizzò mai, e rimase in un mucchio disordinato di Notizen zu Klee, «appunti su Klee», uno dei quali contiene una memorabile citazione del pittore: «Bilder sind keine lebenden Bilder», «le immagini non sono immagini viventi»; i dipinti sono morti: non-esseri. È probabile che quest’opera di Klee piacesse particolarmente a Heidegger perché riecheggia con chiarezza il suo «essere-per-la-morte», come il filosofo definiva una delle qualità fondamentali dell’autentico Dasein.
La mascella severamente serrata che segna il Totenkopf (cranio) al centro del dipinto ha reso quest'opera un motivo amato e naturale per una serie di pubblicazioni sul tema morboso del «stile tardivo», e difficilmente potrebbe esserci un sigillo più appropriato per l'unisono di Heidegger e del linguaggio nella morte che i famosi ultimi tratti di Klee.
Senecio: Paul Klee e la senescenza/il silenzio
Il dipinto Senecio, noto anche con il titolo di Baldgreis (Presto vecchio), ci mostra il lato più stravagante e umoristico di Klee, rivelando qualcosa del suo debito spirituale con l’anarchismo gentile e ludico del dadaismo zurighese. Sebbene questo ritratto grezzo e vignettistico di un «piccolo vecchio» riecheggi l’arte cubista e le maschere africane, il termine di confronto più indicativo potrebbe essere la vivace tradizione satirica fiorita nella Germania dell’epoca – si pensi per esempio alle feroci caricature di George Grosz dei pilastri della società weimariana, spesso raffigurati come «uomini senescenti». Il 1922 fu per Klee un anno particolarmente produttivo, ma rappresentò anche un momento cruciale per la Germania postbellica, con l’assassinio di Walther Rathenau e la vertiginosa svalutazione del marco. Tutto ciò avrebbe contribuito a spianare la strada al diffondersi di un discorso politico estremista, culminato nel 1923 nel tentato putsch di Hitler in una birreria di Monaco. (Sono dei baffetti ben spuntati quelli che vediamo, o si tratta solo delle narici di Senecio?). Il petit vieillard di Klee sembra un po’ inquieto, scontento: ha il volto familiare dell’irritazione, e dunque è perfetto per la copertina di True to Our Feelings. What Our Emotions Are Really Telling Us di Robert C. Solomon, il cui primo capitolo s’intitola «Anger as a Way of Engaging the World». Quanto ci appare attuale il vecchio adirato di Klee nella nostra epoca rabbiosa – epoca che ha indotto a formulare più di un paragone con il funesto 1933, anno fatale per la Germania.
Senecio compare anche sulla copertina di un libro dedicato all’opera di Stefan Heym e Jakov Lind, due autori ebreo-tedeschi tutto sommato poco noti, che hanno pubblicato prevalentemente o esclusivamente nell’inglese dei loro paesi adottivi e delle loro identità postbelliche «translinguistiche». L’autore sostiene che la lingua d’elezione di questi romanzieri rappresenta l’unico tetto sopra la loro testa. È interessante notare come il vecchietto di Klee non abbia una bocca degna di menzione: nessun idioma per lui, nato dal tumulto linguistico dell’Europa centrale degli anni venti del Novecento. Significativamente, Klee ha dipinto questo quadro proprio nello stesso anno in cui, a Parigi, appariva in un’edizione a tiratura limitata l’Ulisse di James Joyce, l’ultima versione della storia dell’«ebreo errante» nelle vesti di Leopold Bloom in quanto loquace Everyman. (Nel 1981 Heym scrisse effettivamente un libro intitolato Ahasver).
Blick aus Rot (Sguardo dal rosso): Paul Klee e la psicoanalisi/psicologia/psicoterapia
Blick aus Rot – talvolta reso nel mondo anglofono con il titolo tendenzioso di Beware of Red, che suona decisamente politico considerando il contesto della sua realizzazione (1938) – appartiene alla produzione tarda di Paul Klee: annuncia l’approssimarsi della fine in modo appena meno dimostrativo di Morte e fuoco, con cui condivide un elementare (e funesto) senso di dispersione e frammentazione. (Paul Klee è il massimo poeta della frammentazione in quanto esperienza filosofica che definisce la modernità, del frammento come sacramento del pensiero moderno.)
Come tante delle opere di Klee, anche questo dipinto invita a proiezioni interpretative di ogni tipo. Sembra dunque appropriato che una riproduzione di Blick aus Rot, così spiazzante, privo di un centro e aperto all’analisi, compaia sulla copertina di Open Minded. Working Out the Logic of the Soul, un libro di Jonathan Lear concepito (in parte) come un appello critico per un ritorno a Freud come fonte inesauribile per raggiungere una migliore comprensione delle strutture della soggettività umana nella nostra epoca del «sapere». Pensando e scrivendo all’intersezione tra filosofia e psicoanalisi, Lear osserva nella prefazione a Open Minded: «Freud diceva che la psicoanalisi è una professione impossibile. Anche la filosofia lo è. Non si tratta di una metafora o di una locuzione poetica e paradossale. È vero, alla lettera. E l’impossibilità è in ultima analisi una questione di logica. Perché l’idea stessa di professione implica una struttura difensiva, mentre è parte integrante della filosofia e della psicoanalisi l’essere attività che annullano tali difese. Appartiene alla logica della psicoanalisi e della filosofia che siano forme di vita impegnate a vivere apertamente: con verità, bellezza, invidia e odio, meraviglia, soggezione e paura». Aprendo non solo la mente, ma anche il corpo e l’anima – e l’occhio e l’Io.
La natura del rapporto di Paul Klee con Freud e la psicoanalisi è un argomento troppo complesso per essere esposto nel dettaglio in questa sede, ma la perdurante popolarità di Klee come creatore di immagini ritenute particolarmente adatte a «illustrare» i principi di svariate «logiche dell’anima» (psicologie, psicoterapie) è del tutto evidente. L’interdipendenza tra visione e comprensione potrebbe essere fondamentale per spiegare questa circostanza: l’essenza dell’opera di Klee consisterebbe proprio nel suo opporsi all’individuazione di «essenze», nella sua apertura, programmatica e mai forzata, del campo visivo.
Impressum
Fokus. Cover Star Klee
Zentrum Paul Klee, Bern
7.6. – 14.9.2025
Guida digitale
Realizzazione: Netnode AG
Gestione del progetto: Dominik Imhof
Testi: Dieter Roelstraete
Traduzione: Traduzione di Elena Sciarra e Linda Farata per Gegensatz Translation Collective
Il Zentrum Paul Klee è accessibile a tutti e offre eventi inclusivi.